Riso amaro per i consumatori e per i coltivatori.
In base ad una legge recente, è stato introdotto l’obbligo per il produttore di specificare sulla confezione la tipologia di riso utilizzato. Una norma apprezzabile, se non fosse che è troppo generica.
La dicitura indicata in etichetta non è esatta
La dicitura riportata, infatti, non è quella specifica del riso usato, ma della famiglia di appartenenza. Si tratta di gruppi creati scientificamente in base ad una serie di parametri, che vanno, ad esempio, dalla dimensione del chicco al suo colore.
Ci sono però anche altre caratteristiche che differenziano un riso da un altro, ma che non vengono prese in considerazione per la catalogazione. Parliamo del tempo di cottura e del sapore, due aspetti tutt’altro che secondari per il consumatore, che si trova così ad acquistare confezioni di riso che magari riportano lo stesso tipo di famiglia sull’etichetta, ma risultano poi diverse al momento di cuocerlo o mangiarlo.
Un problema da non sottovalutare, che riguarda anche i coltivatori. Il contadino, infatti, vende al distributore il riso secondo il prezzo di mercato, che tiene conto delle diverse varietà di prodotto. Una cifra che può non trovare riscontro sugli scaffali dei supermercati, dove magari una confezione viene venduta ad un prezzo maggiore perché sull’etichetta il riso acquista una categoria più alta, venendo inserito in una famiglia che comprende qualità più nobili.
“Ci troviamo di fronte ad una situazione complicata – sostiene l’Associazione Codici – che presenta troppi lati poco chiari, a svantaggio dei consumatori e dei coltivatori. La legge deve essere corretta, in modo che sulla confezione sia riportato chiaramente il tipo di riso, tenendo conto di tutte le sue caratteristiche. Non bastano categorie generiche e non è nemmeno sufficiente l’ultima modifica, in base alla quale le aziende che si iscrivono a determinati elenchi possono aggiungere la dicitura ‘classico’ sulla confezione. Più che un modo per fare chiarezza – conclude l’Associazione Codici – riteniamo che sia un’iniziativa che genera soltanto ulteriore confusione nel consumatore, che potrebbe pensare ad un’operazione di marketing e continuerebbe così a non sapere realmente che tipo di riso mangia”.